LA CACCIA

e occasioni prese al volo portano spesso a scoperte sorprendenti e inaspettate.
Così pensava Beppe e perciò accettò l’invito di Fulvio a una battuta di caccia al capriolo nelle highland della Scozia. Fulvio, cacciatore di grande esperienza in diverse discipline venatorie, trovava in Beppe l’accompagnatore ideale. Con il suo modo di parlare quasi sotto voce, cominciò a far visualizzare a Beppe il programma per il giorno dopo, mentre erano seduti a tavola in una casa isolata, costruita in pietra grigio scuro, Hotel – ristorante, in mezzo a fitte foreste, distese su colline ondulate. Il padron – chef di squisita gentilezza e qualificazione stellata, presentava dopo il dessert gelato, il guardiacaccia. Accompagnati con lo Scotch gli accordi furono presto presi.
Dopo una breve dormita si partì, nel buio mattutino, in fila indiana con il guardiacaccia in testa.
Equipaggiamento leggero, previsioni meteo favorevoli, stivali impermeabili e giacca a vento. Seguendo stretti sentieri fra cespugli, erbe e alberelli, in alto sulle creste delle colline si preannunciava il giorno nascente, sempre più luminoso. Fra il guardiacaccia, Fulvio e Beppe non fu mai scambiata una sola parola.
Raramente Beppe intercettava uno sguardo di Fulvio. Dopo ore di cammino arrivarono a mezza collina raggiata dal primo sole, il muschio era sempre più presente. Il cammino diventava pesante per il l’alto contenuto d’acqua nel muschio ma con una gamma di colori un ventaglio cromatico inaspettato, che oscillava dai gialli velenosi all’azzurro profondo con tutte le tonalità gradazioni e variazioni possibile di verde.
I boschetti di pini diventavano sempre più bassi e rari in mezzo a estese macchie di muschio, quello in superficie già asciugato dal sole, ma appena sotto, correva l’acqua più limpida del pianeta. In alto, a trecento metri circa di distanza al bordo del boschetto di pini sovrastante si presenta un capriolo con gracili movimenti e con i tipici occhi a mandorla.
Fulvio appoggia il suo fucile, caricato a palla, su un treppiedi. La esplosione della fucilata e la caduta del capriolo sarebbero avvenuti nello stesso istante, così immaginava Beppe quest’evento. Il capriolo non cade colpito a morte ma scappa gravemente ferito nel vicino boschetto: davanti a lui c’era un filo di ferro che faceva parte di una recinzione. La palla urtandolo si era frantumata in mille pezzi.
Per ritrovare il capriolo ferito e vagante, il guardiacaccia scende a valle a prendere il suo cane, per la ricerca. Nel frattempo Fulvio e Beppe aspettando il ritorno della guardia si dovevano coprire con ogni lembo dei loro indumenti per proteggersi dalle mosche camminanti. Una specie che riesce a entrare nei buchetti più nascosti e profondi, per pungere e lasciare chiazze rosate in rilievo. Dopo diverse ore le mosche uscivano dei vestiti più intimi: guardandoli quei due sembravano essere fuggiti da un ospedale, dal reparto infettivi. Questa disperata battaglia durava da tre ore ormai quando un piccolo cane bianco sorprendeva Fulvio e Beppe nel mezzo del delirio. Con una velocità incredibile quell’esserino abbaiante trovava il malcapitato capriolo morto a valle, nei cespugli di mirtilli.
L’usanza del luogo vuole che le interiora rimangano sul posto, per i lupi.
Cena organizzata da Fulvio: ha invitato amici di caccia e cacciatori, incluso Beppe, in una baita gestita da Paola e Pietro, sulle montagne della Cisa. Beppe portava sempre con sé i suoi attrezzi, per fissare sulla carta pensieri e disegni, ma questi erano affari suoi. La serata passava, discutendo, gridando e urlando: non si capiva mai la fine di una storia raccontata dai diversi amici cacciatori. Tutti hanno visto ombre fuggire nel nulla, tutti hanno sentito fruscii, battiti d’ali e sagome di enormi dimensioni improvvisamente scomparire, qualcuno sparava anche, come si sentiva nelle discussioni accese, però sui piatti serviti nella baita mangiavano stufato, brasato e varietà di affettati forniti da bracconieri esperti. Pure Desi, il capo guardiacaccia, che aveva nelle vicinanze una piccola fattoria con capre, qualche cavallo, polli e galli, partecipava consapevole in allegria. I caprini di Desi, maturati immersi nell’olio accompagnati con il pane appena sfornato, chiudevano degustazioni e serata. – Magari …
Beppe seduto tranquillamente in un angolo del ristorante, gustando l’ultimo boccone vede avvicinarsi deciso Pietro accompagnato da Desi, con una gabbia con dentro un gallo selvatico di rara bellezza. I suoi colori variavano dal verde, al blu elettrico passando dal nero cangiante d’effetto dei colori lustri. Il gallo, vivendo a una certa quota di altitudine e in libertà, non raggiungeva i due chili di peso. Desi con uno spettacolare cappello di feltro grezzo dal quale fuoriuscivano capelli lunghi e disordinati, posa la gabbia con il gallo davanti a Beppe. Con un gesto provocatorio, ricordando certe chiacchiere attorno a Beppe, insiste per fargli fare un disegno del gallo ipnotizzandolo. Beppe cerca di non perdere la calma, fa finta di niente, pallido ma coraggioso si alza per affrontare la situazione, cosciente di essere circondato e osservato, non solo dagli amici cacciatori: il ristorante era pieno di altra gente proveniente dalle valli circostanti.
Il tavolo di Beppe è liberato velocemente da posate, piatti e tovaglia da Paola, vestita da cuoca con grembiule e copricapo, per poi sparire dietro le quinte, gli amici di cena e commensali furono allontanati dal tavolo. Beppe rimane solo con la gabbia e il gallo illuminato da un faro a distanza. Tutti le luci superflue si spengono di colpo. Beppe si sente abbandonato, preda del pubblico su un palcoscenico spietato. Si avvicina alla gabbia per aprire un’anta e come un fulmine il gallo lo aggredisce, beccandolo sulla mano destra. Per guadagnare tempo Beppe comincia a sistemare i suoi attrezzi su una sedia a portata di mano e chiede un paio di guanti a Pietro. Risposta, non ce ne sono: superato il momento di panico Beppe si avvicina di nuovo alla gabbia e per ingannare il gallo, gratta con un dito lo steccato sul retro. Come una furia il gallo si gira per attaccare di nuovo il nemico. In quell’istante Beppe apre la gabbia, prende il gallo con due mani e lo porta vicino al tavolo. Lo molla per un attimo con la mano destra per prendere le due zampe e incrociare lo sguardo del gallo: piano piano il battito delle ali rallenta, sempre fissandolo negli occhi, Beppe comincia a girare il gallo lentamente e posarlo sul tavolo di schiena.
Beppe si era immaginato che Desi volesse fare uno scherzo con quel gallo selvatico, il ristorante pieno di gente e il respiro sospeso, non si sentiva volare neanche una mosca né una zanzara. Il gallo ormai tranquillo, la testa inclinata verso l’alto e le zampe ritirate guizzando sulla pancia.
Con cautela Beppe appoggia il blocco da disegno sul tavolo e comincia con un pennarello a tracciare i primi segni. Pensava di poter lavorare seduto, ma il gallo non permetteva questa comodità. La mano destra chiedeva, con gesti inconfondibili, alle persone più vicine a lui, di servirlo degli attrezzi desiderati: staccare lo sguardo dal gallo non era possibile. Beppe, disegnando e colorando finiva la sua opera, mentre la gente attorno era ancora senza fiato in preda alla paura, il gallo non era legato e così poteva alzarsi e volare sulle loro teste in qualsiasi attimo. Il momento era arrivato per svegliare il gallo e rimetterlo nella gabbia. Beppe con un colpo deciso della mano sul tavolo sveglia il gallo all’istante, il gallo alza le ali per prendere il volo ma ha la testa ancora intontita. Beppe come un fulmine prende il gallo con le mani e lo infila nella gabbia e la chiude. Un applauso di complimenti e di sollievo scoppia nella saletta. Desi, rispettosamente stringe a Beppe la mano, non si immaginava fosse possibile, ammette.
Dopo gli accordi presi in quella serata tutta la combriccola si trova di buon mattino sul Passo della Cisa, nel buio e nella nebbia fitta che strisciava mascherando i cocuzzoli delle vette, con una quindicina di cani da caccia. Senza grandi sforzi camminano verso il Passo chiacchierando e ricordando la cena passata insieme. Il guardiacaccia Desi, con i suoi cinque aiutanti di caccia, Fulvio e gli altri amici cacciatori davanti, portavano i fucili appoggiati sulle spalle mentre i cani abbaiavano esplorando ogni possibile nascondiglio. Beppe discutendo con un ospite di Fulvio chiudeva la fila. Tutti sono vestiti per l’occasione protetti contro acqua, freddo e umidità caratteristiche dell’ autunno e della quota d’altitudine del passo: il gruppo si avvicinò alla zona dove i fagiani trovano da nutrirsi e da nascondersi. Già da una mezz’ora non si poteva più parlare o fare alcun rumore, a un segnale di Desi, i cacciatori caricavano i fucili con le cartucce a pallini di piombo. I cani fiutavano le prime tracce dei fagiani, infatti uno si ferma davanti a un basso ceppo, il muso dritto in avanti e la coda rigida orizzontale, punta l’obiettivo. Fulvio avvisato dal comportamento del suo cane mira in quella direzione, battiti d’ali lo avvertono della presenza di un fagiano, parte il colpo. Il fagiano in fase di decollo, cade. Il cane lo prende teneramente fra i denti e lo porta al suo padrone. Il gruppo dei cacciatori si diluiva in fondo al promontorio fra ceppi, arbusti e macchie di cespugli spingendosi verso la vetta della collina. Partivano altri spari. Con le luci filtrate dalle nebbie, la caccia proseguiva bene: la fila dei fagiani abbattuti si allungava sempre di più. Beppe vicino a Fulvio come amico curioso, osservava l’intesa fra i cacciatori e loro cani, i quali però travolti dall’ istinto non seguivano sempre alle lettera i comandi dei loro padroni. Rimasti isolati dagli altri cacciatori, Fulvio, certo della presenza di un fagiano segnalato dal suo cane fra masse pietrose nascoste nei ceppi erbosi, dà nelle mani di Beppe il suo fucile e dice, guarda lì c’e un fagiano, spara.
Beppe sorpreso dal gesto dell’amico, prende il fucile carico e cerca disperatamente il fagiano. La sua visuale, tutta in salita, contro luce e la totale ignoranza della balistica, della potenza delle pallottole uscite dopo la esplosione della cartuccia, del rinculo del calcio del fucile, confermano a Beppe la sua perfetta incapacità di affrontare la situazione. In cerca del fagiano Beppe maneggia l’arma, puntando in tutte le direzioni a sproposito.
Si rende conto di essere un pericolo pubblico e restituisce all’amico Fulvio l’arma.
Finiva l’autunno, arrivava l’inverno, passavano anche la primavera, l’estate e non c’era un momento in cui Beppe non pensasse alla situazione, agli errori, che aveva fatto in quella battuta di caccia. Non viveva più in pace con se stesso. Studiava, ricostruiva, ricordava parole dette, immagini viste. Egli scavava nell’anima sua per arrivare al punto di essere convinto di seguire in futuro i propri istinti naturali e forse così scoprire, inconsapevolmente, un dono nascosto nel suo DNA. Il più grande e più importante viaggio è quello in se stessi, così Beppe concludeva le sue meditazioni.
Il caso volle, – guardando indietro sembra una favola costruita o inventata,- ma non é così, che Beppe fosse invitato l’anno seguente di nuovo dall’ amico Fulvio a caccia di fagiani al Passo della Cisa con quasi gli stessi amici dell’anno precedente. Prima di imboccare la via per i monti, la piccola colonna dei fuoristrada equipaggiati, dei cacciatori e dei loro cani, si fermò al bordo di un bosco nei campi di granoturco. La ricca presenza della rugiada brillava, toccata dalla prima luce come fossero diamantini sulle cime delle alte piante. Beppe fermo con un amico fuori dal tiro delle fucilate, seguiva le scene a distanza. Il campo era circondato dai cacciatori che sparavano ai fagiani, che decollavano spaventati dal branco di cani. Vicino alla loro postazione parte un fagiano che Fulvio prende di mira, ma sbaglia. L’amico nella sua ingenuità sussurra a Fulvio. “Sai Beppe – dice -, quello era prendibile”.
La puntata venatoria era soddisfacente per il risultato ricco di fagiani uccisi, ma zona limitata, la compagnia si avvia verso il Passo. Dopo una lunga camminata in salita fra crepacci profondi, macchie di cespugli che ostruivano il cammino, ideali nascondigli, i cacciatori conquistavano la mezza collina distanziandosi uno dall’ altro, sempre più. Fulvio dopo una serie di diversi onorevoli abbattimenti dà in mano a Beppe il suo fucile da caccia con calcio inglese, una caratteristica con la quale Beppe si trova subito a suo agio. Il calcio rispetto alla canna ha una angolazione molto più comoda. Beppe con la doppietta in mano, leggermente inclinata in basso, segue il cane di Fulvio. Non ascolta più consigli né raccomandazioni, si lascia guidare e segue il suo istinto. Un fagiano si alza per prendere il volo, Beppe aspetta qualche secondo e con un unico armonioso movimento, appoggia il fucile fra guancia e spalla, mira e spara.
Il fagiano è colpito in pieno. Il cane lo porta a Fulvio, suo padrone. Ormai Beppe ha trovato il suo assetto, tranquillo continua praticare la sua ricerca, che ha fatto mentalmente durante l’inverno, e abbatte un fagiano dopo l’altro. Vede a una distanza considerevole un fagiano nascondersi nella chioma di un albero e chiede a Fulvio la portata del suo fucile: Egli spiega a Beppe la diversità di rosata di ognuna delle due canne, una cilindrica e l’altra strozzata, che si usa appunto per tiri a lunga distanza. Beppe allinea il fucile, mira e spara. Nessuno può vedere, tranne Beppe, se il fagiano è stato colpito o no, tale è la distanza. Un aiutante di Desi porta il fagiano, caldo, – la prova del colpo da maestro. Da quel momento tutti lo chiamano “Beppe killer”, perché non sbaglia più un colpo. Beppe era orgoglioso della sua scoperta, di essere un cacciatore nato. Questa rivelazione dimostra quanti doni della natura, quanto talento rimane nascosto, dormiente, e non viene a galla per mancanza d’occasioni durante il cammino della vita, concludeva Beppe il suo pensiero.

Beppe non fu mai più invitato da Fulvio a caccia.